Mostra "Alter Ego"

Nilo Capretti si esprime con il ritratto  che è il più tradizionale e problematico soggetto della fotografia in quanto riguarda la persona cioè un oggetto che è il soggetto per eccellenza. Come dice la parola stessa “Ritratto”(Tratto via), non è somiglianza,ma presentazione, presentazione in assenza del soggetto percepito. Così Nilo passa oltre la superficiale percezione della persona e scava con la luce oblitera l evidente e fa emergere l’essenza nascosta non soggetta all’immediata percezione.
Nei ritratti di Nilo predomina la ricerca dell’ espressione che si concretizza in un chiaro scuro rigoroso espresso con un linguaggio sobrio e mai retorico. La relazione di tono e colore dei volti rispetto allo sfondo diviene allegoria della considerazione disincantata della vita attraversata spesso da una sottile vena ironica. L’esistenza con il suo dolore e le sue gravezze rimane sullo sfondo e assume caratteri estetici e significato nelle rughe, nei segni che caratterizzano i volti, brillano nello sguardo del soggetto ritratto e instaurano un dialogo continuo con lo sguardo del soggetto che guarda.
Nilo coglie questo magico dialogo che costituisce il fascino misterioso del ritratto. Si instaura cosi una relazione continua di sguardi,una specie di flusso di energia di campo di forze fra soggetto guardante e oggetto guardato. In questo spazio si situa l’opera di Nilo che ci comunica una visione mai superficiale,spesso intima attraversata da una sorvegliata commozione.

Lorenzo Poggi

Filosofo

Il ritratto fotografico ha un rapporto diretto con il ritratto pittorico, un genere vecchio di oltre tremila anni, viziato da sempre dall’ambiguità fra la rassomiglianza e l’adulazione, nella necessità di “celebrare” e “glorificare” il personaggio ritratto, prima ancora di “rappresentarlo”, consegnando ai posteri ed alla storia non i tratti del volto rassomiglianti ai tratti “fisici” del personaggio reale, ma una immagine “credibile” e “simbolica” della personalità raffigurata. Nel ritratto classico diventa fondamentale il collegamento tra l’immagine del volto, in quanto “segno” esplicito e leggibile, ed i “segni” altrettanto espliciti e leggibili del suo status sociale. Con i procedimenti fotografici non cambia molto, a parte l’illusione di ottenere “automaticamente” la rassomiglianza con il personaggio raffigurato, erroneamente definito “soggetto”. La ricerca della rassomiglianza, quasi una “coincidenza perfetta” di tipo “indicale”, fra il modello e la sua immagine fotografica condiziona il mondo della cultura e della fotografia per molto tempo, ma si tratta di un equivoco, perché, come è noto, niente assomiglia meno al nostro volto delle sue immagini fotografiche, specialmente quelle apposte sui documenti di “identità”.
Di fronte alla fotocamera ogni personaggio si atteggia, modifica la propria espressione, impersona un suo modello ideale, e lo imita riuscendo ad alterare i propri tratti somatici, fino a rendersi praticamente irriconoscibile. Davanti agli altri ciascuno indossa una maschera, più o meno elaborata, più o meno aderente al personaggio che vuole interpretare, e per lungo tempo si è creduto che il compito del bravo ritrattista fosse quello di “strappare” questa maschera per rivelare il “vero” volto e la “vera” personalità di ciascuno di noi. Questo secondo equivoco, celebrato come “ritratto psicologico”, è l’altra faccia (per così dire) del ritratto fotografico, quella che mira a denudare ed a smascherare i personaggi, rivelando la loro vera natura, la cosiddetta “anima”, che spesso si rivela essere solo la loro fragilità e la loro miseria. La fotografia del volto si pone così fra i due estremi, la presunta massima “oggettività” e l’altrettanto presunta massima “soggettività”, altalenando fra la accettazione e la rappresentazione della maschera e la sua demistificazione e dissacrazione.
Nelle immagini di Nilo emerge una terza possibilità, peraltro già praticata in altre forme da alcuni famosi fotografi “ritrattisti” del passato, quella di porre davanti alla “maschera” naturale di ciascuno di noi una seconda maschera, ancora più elaborata, ancora più caratterizzata ed ancora più esasperata. Il volto perde così le sue caratteristiche di “segno indicale” e diventa “icona”, non rappresenta più il personaggio ma l’idea, o una delle idee, che il personaggio può suscitare e fornire di se stesso, fino a raggiungere delle forti sfumature “simboliche”. Il volto non viene nascosto dietro una sola maschera, ma dietro una serie di maschere, come nel gioco delle scatole cinesi, e quando si crede di averle strappate tutte, se ne trova un’altra che mostra una nuova ipotesi della realtà.
Ritrarre il solo volto per Nilo non è sufficiente, e come nella ritrattistica più tradizionale, al volto vengono associati dei “segni” che hanno la funzione di denunciare lo status sociale e di indicare la professione del personaggio ritratto. Ma Nilo vuole andare oltre, vuole descrivere anche il nostro retroterra culturale, le aspirazioni, le ambizioni, le abitudini, le passioni, e quanto altro ci identifica e ci caratterizza davanti agli occhi degli altri. Il gioco diventa complesso, fra il personaggio e gli attributi che lo circondano si instaura un rapporto articolato, talvolta contraddittorio, fatto di affermazioni, ma anche di negazioni e di contrapposizioni. Questo rapporto si sviluppa autonomamente in ogni immagine, rischiando di diventare artificioso, e talvolta perfino pericolosamente ambiguo, ma il gioco dell’ambiguità fa parte delle regole. Il luogo comune è in agguato dietro l’angolo, l’effetto facile anche, le venature kitsch percorrono ogni immagine e talvolta affiorano, per essere utilizzate e messe in evidenza da una accurata régia. La “mise en scéne” di ogni immagine è studiata e raffinata, la costruzione per simboli è pianificata, caso per caso, alla ricerca dell’effetto voluto. Nessun personaggio è neutro, ognuno ha una caratterizzazione che ne esalta un aspetto, fino a mettere il “volto” in secondo piano. Alle maschere che ogni personaggio indossa abitualmente vengono sovrapposte nuove maschere, imposte dal fotografo, ed accettate con ironia e complicità dal personaggio, che viene trasportato in una realtà fittizia, nata dall’immaginazione e dall’introspezione.
Nel gioco dei mascheramenti che svelano o fingono di svelare quello che si cela dietro le vecchie maschere, è compresa la maschera più importante di tutte, quella sotto la quale si cela il fotografo stesso. Dietro ognuno dei “ritratti” si cela in realtà, una sorta di “autoritratto”. Perché ogni immagine fotografica, come ogni altra “opera di arte” parla soprattutto di tre cose, dell’oggetto raffigurato o raccontato, del come è stata fatta, ed in una buona misura, di colui che la ha fatta.

Danilo Cecchi

Architetto